Ricordando Massimo

Epicuro e la sociologia. Conversando con un filosofo su sapere critico e ricerca sociale

Come tante altre discipline anche la sociologia ha contratto numerosi debiti con la filosofia. Debiti inestinguibili e che tali resteranno qualsiasi sia il destino della più giovane tra le scienze sociali. Oggi la sociologia vive più che mai all’ombra del pensiero liberale. Pensiero che attinge da varie fonti: l’illuminismo, l’utilitarismo, l’economia politica classica, la teoria politica, il neopositivismo e persino il materialismo. Per quante e differenziate siano le fonti tutte sostengono la visione del mondo propria delle classi dominanti dal XIX secolo ad oggi.

La vittoria sul piano della prassi basta e avanza per costituire un’egemonia culturale che da tempo ha interessato, e spesso inquinato, tutte le istituzioni, comprese la scuola, l’università, il sistema dell’informazione, l’ordinamento giuridico. L’egemonia raggiunta ha un protagonista preciso: il neoliberismo. Come è noto si tratta di una teoria a tutto campo (economico, politico, filosofico, antropologico) a sostegno di un tipo di capitalismo refrattario ad ogni compromesso con le classi subalterne e incline a imporre il proprio comando su ogni aspetto della vita sociale. Anzi, per effetto dell’accelerazione tecnologica, della vita in quanto tale. La visione del mondo imposta dal neoliberismo tramite le più avanzate macchine del sapere, dell’editoria e della comunicazione si coniuga col ritorno in Europa del primitivismo tipico dell’homo homini lupus. Ossia con l’importazione nel Vecchio continente dello stile di vita statunitense fondato sulla competizione, la misurazione della performance, l’interesse personale, la legge del profitto. Modello che compensa lo spaventoso impoverimento spirituale, psicologico e umano diffondendo valori materialistici legati alla ricchezza economica e al consumismo.

Dunque, sì, anche il capitalismo è materialista. Ma di un materialismo negativo che poco ha a che fare con quello dell’antichità classica e ancor meno con quello teorizzato da Marx. Va detto però che da entrambi ha appreso qualcosa; ovviamente pervertendo questo qualcosa. Per esempio, strizzando l’occhio al passato il capitalismo ha concesso ai dominati la possibilità di chiudersi in piccoli mondi dove sperimentare comunità alternative potenzialmente in grado di rivoluzionare la società. Man mano che tali comunità si spegnevano, diciamo dall’abbattimento del movimento No-global a Genova nel 2001, è dilagata un’etica sempre più privata. Al singolo è permesso di inseguire un’utopia personale purché non gli passi neanche per l’anticamera del cervello di rivoluzionare la società. La ricerca può andare nella direzione della pace interiore, lontano dai riflettori, oppure nella vita sfrenata, sotto i riflettori. In mezzo ai due estremi si estende un ventaglio sempre più largo di subculture che vanno dai biker ai gruppi di fan di Harry Potter, dai cosplayer alle tifoserie organizzate per appassionati di calcio e così via. In quanto al materialismo storico possiamo dire che in un certo senso nessuno è marxista quanto un capitalista. Il quale sa perfettamente che “le circostanze fanno gli uomini non meno di quanto gli uomini facciano le circostanze.” [1]
E sa anche quanto sia dialettico il rapporto tra circostanze economiche e circostanze culturali. Sa infine come, per governare questa dialettica, sia necessario il bastone per il lavoro e la carota per il consumo.

Se l’ideologia del mercato è onnipervasiva quali speranze abbiamo di uscire dal modello sociale neoliberista e costruirne un altro? Interrogativo che resta aperto perché incerti sono gli esiti della storia, seppure mai come oggi il capitalismo regga saldamente il timone col quale sta pilotando il proprio auto-superamento. E allora, in questa fase di transizione si può provare a rileggere qualcuno dei filosofi che hanno proposto un’arte di vivere. Un’arte che è insieme alternativa pratica e critica teorica del modello sociale dominante. Ci abbiamo provato dialogando di Epicuro col filosofo Massimo Piermarini. [2]

Perché proprio Epicuro? Perché come noi visse in un periodo di profonda crisi sociale; perché a differenza di quel che capita a noi fornì una guida per l’esistenza senza basarla sul successo e la ricchezza; perché costruì un modello di vita in comune imperniato sull’amicizia e l’eguaglianza; e perché fu il fondatore di un movimento che durò circa settecento anni. Diversi altri perché il lettore li scoprirà nel corso dell’intervista. Dalla quale speriamo risulti abbastanza chiaro che non ha alcuna intenzione di attualizzare Epicuro. Ciò che invece ci ha tentato è la ricerca di nuove sintesi per la critica del presente partendo dall’orientamento filosofico materialista. Può essere sufficiente per destare l’interesse di una sociologia non allineata?

È rimasto celebre il motto epicureo “Vivi nascosto”. Dove per nascosto non significa darsi alla macchia. Ma ritirarsi dalle lotte di potere della polis, condurre in campagna una vita appartata e frugale in compagnia di amici con cui condividere il tetto, i pasti e i pensieri. In altre parole: è saggio colui che si tiene lontano dalla vita pubblica, soprattutto quando alimenta l’ingiustizia sociale. In un certo qual modo in occidente la maggior parte dei cittadini vive nascosta. Nel senso che non si impegna in politica, non si occupa degli affari pubblici e si rintana nel proprio piccolo mondo. Ma le differenze tra le due ritirate dalla società sono abissali. Può illustrarle?

Nelle sviluppate società occidentali il nascondimento non è una scelta. È più corretto chiamarlo isolamento nel guscio del privato, cioè la condizione di chi, appunto, è privato di tutto e dipende da sostituti fittizi dell’amicizia, dell’amore, dell’arte, della bellezza, della giustizia. Solo apparentemente il singolo individuo è in rapporto con molti. In realtà è chiuso nel suo bozzolo e circondato da forze che lo manipolano. Tra queste forze lo sciame digitale, [3] costituisce l’ultima manifestazione del capitale totale. Il quale, da un lato, connette sempre più gli individui lasciandoli però sempre più soli; dall’altro, ha trasformato anche le vite personali, le emozioni e i sentimenti in un flusso di informazioni da cui estrarre profitto. Sono queste forze che plasmano e riplasmano i profili del soggetto, che diventa un falso io al quale deve uniformarsi. E proprio dove regna la mistificazione della realtà l’arte di vivere consiste soprattutto nella conoscenza della concreta natura delle cose e nella consapevolezza del rischio della compromissione. La scelta di vivere nascosto è quella di stare con coloro che condividono la stessa arte di vivere, senza farsi coinvolgere da una realtà sociale fatta di dominio, sottomissione, menzogne e false rappresentazioni. È una strategia che implica la costruzione di una risorsa collettiva contro i mostri del potere e la sua arma principale, la mistificazione.

La nostra società incentiva il motto “Vivi esposto”, nonostante la maggior parte delle persone conduca una vita anonima. Per uscire dalla quale il potere concede di aprire un blog, un canale su YouTube, mettersi in mostra su Instagram, Facebook, TikTok, ma anche per strada tramite l’abbigliamento, l’acconciatura, il nude look e altre forme di esibizionismo. La ricerca esasperata della visibilità ha reso l’apparire più importante dell’essere. Epicuro offre strumenti per invertire questa tendenza?

Penso di sì. Ai suoi tempi Epicuro diede una risposta alla fragilità dell’individuo schiacciato dalla dimensione oppressiva della politica imperiale: la costruzione di una socialità diversa, una nuova forma di collettività, fondata sulla libertà, l’autonomia razionale e l’uguaglianza. È il sogno di molti esseri umani: realizzare la propria esistenza non in una società dell’apparire, ma del fare, una società in cui costruire rapporti sociali autentici. È chiaro che la sostituzione di bisogni reali e piaceri reali con bisogni fittizi e pseudo-piaceri ha una contropartita nell’esaltazione narcisistica e nell’esibizione delle proprie presunte qualità. Il punto è che non si tratta né di qualità né di caratteri realmente propri, ma di rappresentazioni fuori dal controllo dell’individuo. Lo spettacolo globale si moltiplica e quello che crediamo di esibire come la nostra immagine è un simulacro, un gioco di specchi in cui scompare la reale miseria della vita organizzata e l’indigenza del singolo sotto un’apparente soddisfazione.

Se il capitalismo ha colonizzato l’immaginario collettivo e si è appropriato della forza dell’eros uscire da questo labirinto sembra assai improbabile. Per molti, addirittura, nient’affatto desiderabile. Penso, per esempio, al cosiddetto popolo della movida.

È proprio a questo punto che interviene la critica materialistica. La quale ha il compito di smascherare i rapporti di potere che sono alla base della spettacolarizzazione della vita quotidiana e di far nascere la necessità d’optare per una libertà consapevole, fondata su bisogni reali, in primo luogo il bisogno di creare. Sono soltanto le espressioni della creatività, i vettori di universalizzazione dell’attività della specie, [4] che possono rompere il muro dell’isolamento nel falso io e generare nuovi corpi collettivi e reali relazioni sociali.

L’edonismo epicureo comporta l’assenza di dolore per il corpo e l’assenza di turbamento dell’anima. Pertanto il piacere non risiede nell’appagamento sfrenato dei sensi: l’esatto contrario dell’edonismo contemporaneo. Rispetto alla dimensione del godimento il pensiero di Epicuro ha spazio nella nostra società?

Il materialismo elimina i codici repressivi, i divieti della morale che limitano la vita e il desiderio, ma stabilisce un limite, che è quello della natura, all’acquisizione e al godimento dei piaceri e alla fruizione dei beni. Soltanto nella versione moderno-borghese questo significa libertinismo, perdita di controllo, dipendenza dai piaceri estremi. Al suo vertice il modello dell’edonismo borghese è De Sade. Spingere al massimo la ricerca dei piaceri significa ridurli ad una variabile quantitativa. Il materialismo segue un’altra strada: sposta il discorso sul significato della fruizione dei piaceri. Ogni godimento, oltre un certo limite, diventa dolore. La ricerca dell’equilibrio, cioè il governo dei piaceri insegnato da Epicuro, implica il riconoscimento della necessità di fruire di forme umane di consumo, cioè di appropriazione e fruizione dei beni, considerate secondo la loro intensità e qualità. Il consumo smodato e la ricerca senza limite del piacere comporta quello che Marcuse chiamava la desublimazione repressiva. Una situazione in cui sei costretto a vivere in una prospettiva senza confini e a ridurre sia l’amore che l’eros a oggetti da consumare. L’eliminazione dei codici repressivi tradizionali della morale e della religione introduce in questo caso alla sottomissione a codici ancora più repressivi, che impongono la distruzione immediata e ripetuta dell’oggetto del desiderio, in una coazione a ripetere che somiglia alla pulsione di morte. Questo non significa che si debba tornare a modelli premoderni. Significa indirizzare il nostro presente verso la libertà sostanziale dell’individuo associato.

Per Epicuro è la ragione e non il piacere che dirige la vita morale. Pertanto la saggezza discrimina tra i vari piaceri accogliendo quelli che non comportano dolori e turbamenti e scartando quelli che offrono un momentaneo godimento ma generano dolori e turbamenti successivi. Questa è la via per la felicità secondo Epicuro. I nostri contemporanei hanno scelto la direzione opposta e la maggioranza di loro si sente appagata nel soddisfare ogni giorno il maggior numero di piaceri possibili: piaceri della gola, della carne, dello sguardo. Questo tipo di ricerca della felicità sembra però contenere in sé i germi dell’infelicità perché espone gli individui a un perenne vuoto interiore, a rincorrere i desideri, che di per sé non si esauriscono mai, anziché soddisfare i propri bisogni. La saggezza epicurea può contribuire a lenire questa sofferenza dell’anima?

Epicuro insegna la sovranità sulla nostra vita, cioè il governo razionale dei piaceri. La ragione, ossia l’accorto discernimento, discrimina tra i piaceri quelli naturali e quelli vani, e tra quelli naturali i piaceri necessari e quelli non necessari. Non tutti i piaceri rappresentano un bene, molti piaceri sono fonte di noia e dolore. Epicuro critica i piaceri effimeri e superflui. È un’etica che si contrappone alla morale e alle sue proibizioni coercitive, certo. Ma, come si vede, non si riassume nel piacere ad ogni costo, perché è un’etica guidata da un ideale di saggezza e da una conoscenza pratica che costituisce anche il principio e il massimo bene della vita felice. La quale commisura i vantaggi e gli svantaggi riguardanti i piaceri indicando ciò che realmente è bene per l’uomo dotato di libero arbitrio e la condizione della sua felicità, cioè l’eliminazione del turbamento dell’anima. D’altra parte l’origine del malessere del cittadino globale non è forse il turbamento che nasce dal non riuscire a controllare né a decidere il progetto della propria esistenza?

“Per il giovane è salvezza il conservare la propria giovinezza, e guardarsi da tutto ciò che ci danneggia con l’assillo dei desideri.” [5] Epicuro ripeterebbe questa sentenza a un giovane di oggi?

Credo proprio di sì. Perché i giovani di oggi sono educati a vivere dentro una sorta di delirio d’onnipotenza. Le figure tradizionali come il padre o l’insegnante sono in via di estinzione. E non lo dico per riproporre le litanie dei reazionari su come si stava bene nel buon tempo antico, quando le pulsioni erano represse e l’educazione centrata sull’autorità. Il problema del limite è il problema dell’esperienza, meglio, delle dimensioni dell’esperienza. Quanto si è scritto sul senso del limite degli antichi? Il limite è una misura che il soggetto stabilisce nel proprio agire. Che sia in rapporto con il giusto mezzo di Aristotele o no è irrilevante. È importante invece che sia un atto di sovranità, una deliberazione consapevole che nasce da un progetto di vita. Un progetto che integra la conoscenza del passato e la speranza di un futuro vivibile. Un progetto che chiamiamo felicità.

Per Epicuro il fine di una vita felice è la salute del corpo e la tranquillità dell’anima. Il nostro modo di vivere non garantisce né l’una né l’altra. Ciò non toglie che non siano ancora oggi ricercate. Si pensi ai vegetariani, ai frequentatori di corsi di meditazione, agli abitanti degli ecovillaggi. C’è una continuità tra queste deviazioni dalla cultura oggi dominante e lo stile di vita epicureo?

Le culture alternative e le regole di vita fondate su valori post-materialisti vorrebbero costituire delle risposte al disagio della condizione presente. Ma in fin dei conti rientrano nell’offerta del mercato e non si pongono in termini di rottura con la miseria quotidiana delle nostre società. Il sistema del capitale non conosce limiti e non rispetta i limiti, né nei confronti dell’uomo né della natura, come è diventato sempre più evidente ai giorni nostri. Lo stile di vita epicureo insegna la possibilità di una società razionalmente organizzata in grado di eliminare i mali principali della condizione umana convivendo in libertà e uguaglianza. Una società basata sull’amicizia e la contrattualità fra i suoi membri.

Osservando la teoria dei bisogni di Epicuro alla luce dello sviluppo capitalistico ci accorgiamo che tale sviluppo non ha liberato gli individui dai bisogni naturali e necessari quali la fame, la sete, avere un tetto sulla testa. In Italia buona parte del reddito delle famiglie va via proprio per garantirsi solo questi beni primari. Allo stesso tempo il capitalismo ha alimentato a dismisura i bisogni naturali e non necessari, come mangiare e bere troppo; per non parlare dei bisogni non naturali e non necessari, come gli onori e la gloria. Onori e gloria che oggi per la maggioranza dei cittadini (il cui reddito è medio-basso) non si traducono in prese di potere capaci di incidere sulla società, ma più modestamente in simboli di status, ricerca di visibilità, subordinazione alle mode. Se questa diagnosi è corretta, allora che ne è della libertà dei cittadini del XXI secolo?

Proprio per fondare la libertà su una prassi consapevole, abbiamo bisogno di un’etica come quella epicurea. È in campo morale che il materialismo epicureo è necessario. Cerchiamo di circoscrivere i caratteri di questa etica necessaria. Innanzitutto è un’etica universale, non soltanto perché rivolta a tutti gli esseri umani e applicabile a tutte le azioni, ma perché costruita tenendo conto dell’esistenza di ognuno. Poi, è un’etica che non si oppone alla vita come le morali nichilistiche. Cioè un’etica fondata sulla saggezza che affronta il problema del limite, del piacere e della morte, perché il piacere e la morte hanno a che fare con la libertà. La nozione di morte è molto importante e getta un ponte tra il discorso della felicità e quello della libertà. Non a caso Hobbes collega il potere di dare la morte come origine della costruzione statuale. Quando non si ha paura della morte e non si lotta per strappare agli altri il necessario, il patto sociale si fonda sull’amicizia e il sostegno reciproco. Il Libro terzo del De rerum natura di Lucrezio parla chiaro. [6] Il nostro mondo, del quale i giovani sono il risultato perché un individuo è figlio più del proprio tempo che del proprio padre, il nostro mondo, dicevo, è privo di saggezza pratica in quanto è privo del passato e ha una visione presa in prestito dai media circa il proprio futuro. Non apprende e non conserva nulla dal passato, non spera nulla e fantastica sul futuro. Questo è il risultato della distruzione dell’esperienza messa in opera dal pensiero postmoderno, ultima propaggine della civiltà meccanicistica, o materialista volgare, della borghesia.

Decrescita felice. Questa celebre formula sembra contenere due punti essenziali del pensiero epicureo: vivere in maniera sobria, non procurarsi dolore. Si possono saldare in qualche modo due etiche così lontane nel tempo?

La teoria della decrescita ha sollevato istanze condivisibili di critica alle ideologie del progresso e dello sviluppo illimitato. Il ciclo di accumulazione e i balzi in avanti dell’economia capitalistica – in realtà piccole isole in un oceano di crisi e di distruzioni – non possono essere la regola per il funzionamento delle società umane. La natura non è un inesauribile magazzino di risorse da utilizzare in maniera scriteriata, ma un sistema che ha dei limiti e una sua organizzazione interna. Queste istanze mi sembra convergano con la prospettiva epicurea del limite all’interno del quale la società fruisce dei beni e dei piaceri. Aggiungerei che la regolazione dei bisogni e dei piaceri diventa possibile soltanto al di fuori di un’economia di mercato.

L’assenza di turbamento psichico è il presupposto per una vita etica. Si tratta tuttavia di un atteggiamento che conduce alla staticità. Per Epicuro infatti la vita degli dèi è perfetta e in quanto tale priva di perturbazioni. Ma se la perfezione conduce all’immobilismo, per quanto beato, non è meglio l’imperfetta e adrenalinica vita contemporanea?

La distinzione tra piacere catastematico o statico e piacere violento è un tratto fondamentale della teoria di Epicuro. I desideri passeggeri non rientrano nel campo del piacere statico che ha una sua stabilità, cioè implica soddisfazione e uno stato durevole di serenità. È quello che Epicuro chiama mancanza di turbamento nell’anima e di dolore nel corpo, in cui i piaceri spirituali hanno la prevalenza, pur essendo il rispecchiamento dei piaceri sensibili. La stasi non significa immobilità, ma, al contrario, un movimento che si svolge entro i limiti che la ragione stabilisce. Nella vita umana i bisogni primari insoddisfatti producono lacerazioni e scompensi gravi, mentre la loro soddisfazione promuove la tranquillità e il controllo di sé stessi. Migliorare sé stessi non significa rinuncia, ma autogoverno.

Epicuro invita Pitocle a tenere a mente il suo metodo fondato sulla molteplicità delle spiegazioni, l’osservazione dei fenomeni e i dati empirici. Altrimenti si cade nel mito. Sul piano scientifico la modernità ha dato retta anche a Epicuro e si è sbarazzata dei miti. Sul piano della riproduzione sociale no: i miti sono ancora necessari per dare un senso alla realtà. I miti moderni sono soprattutto legati al consumo, tanto più oggi che è tramontata l’idea di progresso. Sotto questo profilo Epicuro è irrimediabilmente sconfitto?

Nel corso della storia la superstizione e l’idolatria ritornano sempre sotto nuove vesti. I miti sono false rappresentazioni che passano attraverso messaggi seducenti per veicolare gli imperativi del potere. L’atteggiamento scientifico mette tra parentesi i miti e le pre-comprensioni e si affida alle osservazioni e alle spiegazioni razionali dei fenomeni. Certamente esistono tanti livelli di esperienza, intensità diverse e diversi modelli di razionalità. Ma è evidente che l’atteggiamento contemporaneo è in maggioranza idolatrico per la semplice ragione che la maggior parte degli esseri umani non sono i protagonisti del cambiamento sociale. Sembra che il sistema che espropria l’individuo della sua effettiva capacità di agire nel mondo sia lo stesso che crea i miti che generano le paure, ne bloccano l’iniziativa autonoma e ostacolano il controllo razionale della sua vita. Il capitalismo, che controlla la vita sino a dominarla, ha già eliminato ogni residuo di trascendenza tradizionale sostituendola con la divinizzazione della scienza, della tecnica e col culto del corpo. Marx in questo senso è illuminante. Potremmo provocatoriamente dire che Il capitale è una lotta serrata contro le idolatrie e i miti della modernità. Una lotta che oltrepassa l’orizzonte dell’illuminismo e, ovviamente, del materialismo borghese. Il capolavoro di Marx è in continuità con la sua tesi di laurea su Democrito e Epicuro. Al centro di entrambe le opere c’è l’idea di libertà umana contro le superstizioni e le mitologie.

Nota a margine. La società infelice e i suoi critici

Più di qualcuno sorriderà leggendo questa intervista. Non tanto per i temi che tratta, ma per gli strumenti, gli autori e le chiavi di lettura che utilizza. Tuttavia i problemi affrontati sono sul tavolo. Per esempio: l’impossibilità di consumare beni ed esperienze senza porsi dei limiti; la diffusa sensazione degli individui di essere in balia di forze contro le quali non possono nulla; la fuga dalla partecipazione alla vita pubblica; il trionfo dell’apparenza sulla realtà. A questi problemi, trattati nel corso dell’intervista, si possono aggiungere: l’aumento delle disuguaglianze sociali; la generalizzata caduta di qualità delle produzioni culturali; il precipitare del corpo politico italiano ed europeo nella più sconcertante mediocrità; la formazione di un onnipresente potere extrapolitico fondato sull’informazione. Certo, l’incallito sociologo liberale può girare la testa dall’altra parte e parlare d’altro. Ma anche quando affronta grandi problemi sociali ricorre a un armamentario culturale opposto a quello che percorre la nostra intervista. Sulla quale si staglia il prevedibile giudizio-pregiudizio: com’è demodé!

È fin troppo facile rispondere che il giovanilismo ha colpito anche la sociologia. La quale, lanciata all’inseguimento delle novità, deve presentarsi anch’essa come una novità affannandosi a elaborare sempre nuove concettualizzazioni. Spesso e volentieri il risultato di tale affanno è quello di approdare a un esoterico iper-specialismo, a un giornalismo corredato da note a piè di pagina, alla manipolazione di contraddizioni sociali (col preciso scopo di non risolverle com’è tipico della sociologia soggettivista), alla produzione di una serie di mistificazioni (l’esaltazione del prosumer, l’invenzione del consumatore attivo di prodotti materiali e mediali, l’avvento dell’era della partecipazione, la negazione degli effetti sociali dei media e così via). [7] Se questa ricostruzione ha un senso, allora i problemi che la sociologia ufficiale pone alla sociologia critica sono due: 1) il giovanilismo pseudo-scientifico non fa che aumentare la presa del neoliberismo sulla società; 2) l’esclusione o la naturalizzazione della dimensione del potere dal discorso sociologico fa della sociologia sempre più uno strumento al servizio delle classi dominanti.

Non c’è da prendersela a male. Con Comte la sociologia nasce conservatrice e nel tempo è diventata più una tecnologia per il controllo della società che uno strumento per la sua liberazione. Così è stato con le teorie dell’azione, la scuola di Chicago, il funzionalismo, la teoria dei sistemi sociali e così via. Insomma quasi tutto quello che si trova sui manuali in circolazione dentro e fuori l’università. Al di fuori di questo “quasi tutto” ci sono le eccezioni. E cioè i critici radicali della società capitalistica. Il cui pensiero nella manualistica accademica è ormai appena accennato, dato per morto e sepolto e talvolta travisato. Tutto ciò per dire che ieri come oggi la sociologia gioca un ruolo all’interno della partita per l’egemonia culturale dell’élite economica. Partita facile, dato che oggi opporsi al pensiero liberale è assai arduo dal momento che gli sfruttati, gli infelici, i vinti, gli inadatti, per non parlare dei contestatori, non hanno più rappresentanza politica. Bisogna riconoscere che il capitalismo ha lavorato bene: con le buone o con le cattive ha distrutto ogni possibile opposizione al suo dominio.

Nonostante la partita vinta, il pensiero liberale e la sua variante più dispotica qual è il neoliberismo non producono una buona società. Anzi, la società si incattivisce di anno in anno. Ma proprio perché la partita è vinta non si tratta di incapacità o di errore. Il capitale sa che un’epoca è finita e guarda lontano programmando una nuova organizzazione sociale ancora più classista dell’attuale. L’operazione è in atto da tempo con la liquidazione del conflitto capitale-lavoro, l’addomesticamento dei giovani, il disciplinamento della forza-lavoro, l’appropriazione della tecno-scienza, la distruzione della scuola pubblica, il controllo pressoché totale dell’informazione, la negazione dei diritti sociali e via andando. Che l’obiettivo non sia la felicità collettiva è chiaro. Ma non è neppure quella individuale. Perché per sua natura il capitalismo non può che generare infelicità, altrimenti non si riprodurrebbe. Per questo abbiamo provato a guardare lontano nel tempo, interrogando un grande materialista dell’antichità. Ma a che serve Epicuro a un sociologo d’oggi? A riprogettare le basi filosofiche di una sociologia radicalmente critica. A immaginare una società alternativa.

[1] K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1967, pag. 30.

[2] Massimo Piermarini ci rilasciò questa intervista all’inizio del 2022. Doveva essere la prima di un ciclo dedicato ai filosofi materialisti, dall’antichità ai nostri giorni. La prematura scomparsa di Piermarini ha stroncato sul nascere il progetto. Tra le sue ultime pubblicazioni ricordiamo: L’eone della violenza. La potenza e la geometria dell’azione in Ernst Jünger, Aracne, Roma, 2020; Lavoro. Il lavoro dopo il lavoro, Asterios, Trieste, 2021. Piermarini è stato caporedattore della rivista Azioni Parallele, componente del Centro per la Filosofia italiana e dell’Associazione Docenti Italiani di Filosofia (ADIF).

[3] Cfr., Byung-Chul Han, Nello sciame. Visioni del digitale, Nottetempo, Milano, 2015.

[4] Sulla scorta di Marx per attività di specie Piermarini intende il lavoro.

[5] Epicuro, Massime capitali, in, Opere, TEA, Milano, 1983, pag. 223.

[6] Tito Lucrezio Caro, La natura delle cose, Rizzoli, Milano, 1997, Libro terzo, pag. 245 e segg.

[7] L’insieme di queste e altre mistificazioni costituisce da tempo l’ossatura teorica della sociologia della comunicazione maggiormente accreditata.

Patrizio Paolinelli, La critica sociologica, LVIII, 230, 2024